Il Parlamento europeo ha approvato un pacchetto di proposte che aumenterà la trasparenza e consentirà ai consumatori di confrontare le tariffe, spesso molto diverse tra un Paese e l’altro
Maxi-tariffe per spedizioni internazionali
Spedire un pacco da un Paese europeo all’altro può essere un’operazione molto costosa per consumatori e piccole imprese. I prezzi delle spedizioni – più cari da 3 a 5 volte rispetto a quelle nazionali – variano molto da uno stato all’altro e la trasparenza è minima. Ad esempio per spedire un pacchetto di 2 chili dall’Olanda alla Spagna si pagano quasi 9 euro, mentre l’operazione inversa costa al cliente spagnolo oltre 30 euro. Questo, nonostante il costo del lavoro sia molto simile e la distanza sia la stessa.
Per questo il Parlamento Europeo ha appena approvato un nuovo pacchetto di norme per mettere ordine in un settore poco concorrenziale. Tra le novità previste c’è l’obbligo per le imprese di spedizione di rendere noti i prezzi praticati per ogni servizio. La tabella verrà pubblicata dalla Commissione Ue su un sito dedicato, che verrà aggiornato ogni anno. Qui i consumatori potranno confrontare le tariffe e scegliere la migliore.
L’Europa ha anche conferito alle autorità nazionali maggiori poteri per vigilare sui prezzi praticati dagli operatori del proprio Paese. Le autorità potranno stabilire se il costo di un servizio è irragionevolmente alto. L’Europa non introdurrà alcun tetto alle tariffe: la speranza è che, potendo confrontare i prezzi, i consumatori stimolino le imprese a fornire servizi più concorrenziali.
I costi spesso fuori controllo sono un problema non solo per il portafoglio degli europei, ma per lo stesso libero mercato comunitario.
Secondo una consultazione pubblica della Commissione (http://ec.europa.eu/growth/content/consultation-cross-border-parcel-delivery_it) oltre due consumatori su tre hanno rinunciato a comprare online perché scoraggiati dai costi di spedizione transfrontalieri.
A farne le spese sono soprattutto gli abitanti delle aree meno popolate e le imprese più piccole, che hanno meno scelta e devono, quindi, sottostare alle tariffe praticate dai pochi operatori che offrono il servizio.
Dopo l’accordo raggiunto tra i negoziatori di Parlamento e Consiglio e l’ok degli europarlamentari, adesso manca solo l’approvazione del Consiglio dei ministri Ue perché la proposta entri in vigore.
Non solo dazi, nell’era Trump accordi di libero scambio sempre più in crisi
Il 2017 ha chiuso l’anno positivamente per quanto riguarda l’export e ha visto l’Italia in forte aumento di scambi commerciali rispetto al 2016. Grazie alla ripresa del prezzo dei prodotti energetici, le esportazioni sono cresciute del 7,4% e le importazioni del 9%. Sono dati molto importanti, tanto che i tassi di crescita hanno superato anche quelli del 2012.
Per quanto riguarda il saldo commerciale, si è attestato a 47,5 miliardi di euro. Oltre al comparto energetico che ha raggiunto il 33,4% in export e il 27,4% in import, tra i principali settori industriali, hanno avuto un andamento superiore alla media i beni di consumo non durevoli registrando nelle esportazioni un +7,8%.
Sono aumentati gli scambi con i paesi extra Ue, l’export tocca un +8,2% e con l’import +10,8%. In particolare, la Cina ricopre un ruolo importante dato che le esportazioni verso il Paese Asiatico sono aumentate del 22,2%, mentre la crescita verso gli Stati Uniti è del +9,8%. Anche l’India ha registrato un +21,4% nell’import. In netta ripresa sono anche i flussi con la Russia (+19,3% export e +15,7% import).
Più attivi e dinamici sono stati anche i mercati della Polonia (+15,7%) e la Repubblica Ceca (+11,5%) per l’export e per l’import ancora la Polonia (+12,1%) e i Paesi Bassi (+11,5%).
Nello specifico, per quanto riguarda i settori, la variazione maggiore avvenuta nell’export interessa i prodotti petroliferi raffinati (+34,2%), seguiti dai prodotti farmaceutici (+16%), dagli autoveicoli (+11,3%) e dai prodotti chimici (+9%).
Per il commercio mondiale il vento sembra cambiato: rispuntano i dazi e si moltiplicano le barriere non tariffarie spesso anche più insidiose. Ma tra le vittime della nuova era Trump ci sono anche gli accordi commerciali di libero scambio che dopo l’esplosione a inizio degli anni novanta – all’alba della globalizzazione – negli ultimi anni sono diventati sempre meno frequenti e in diversi casi recenti sono finiti su un binario morto come è accaduto per il Ttip, l’accordo per il libero scambio tra Usa e Ue finito nel mirino del nuovo presidente Usa già quando era solo un candidato nella corsa alla Casa Bianca.
Gli accordi di libero scambio hanno indubbiamente segnato una battuta d’arresto in seguito all’insediamento della nuova amministrazione statunitense. Che ha deciso di sacrificare i negoziati sul Transatlantic Trade and Investment Partnership Agreement (TTIP) tra Stati Uniti ed Unione europea come quelli per l’avvio del Trans-Pacific Partnership Agreement (TPP) tra i 12 maggiori paesi affacciati sul Pacifico (esclusa la Cina). L’ultimo Trade agreement di rilievo è quello siglato tra Canada e Unione europea (il Ceta) che però deve ancora essere ratificato dai Parlamenti nazionali dei Paesi europei. Cosa non affatto scontata visto il cambio di guardia di alcune maggioranze (come in Italia) dove i detrattori potrebbero ribaltare il voto dell’Europarlamento. Il trend sul numero di accordi siglato è comunque in discesa già da alcuni anni come dimostra l’aggiornatissima banca dati Desta (Design of Trade Agreements) che per il 2017 ne registra solo 2 – quello tra Canada e Ucraina e il Pacific agreement on closer economic relations -, dopo gli 8 del 2016 e gli 11 del 2015 contro i 25-30 in media all’anno tra metà anni Novanta e metà anni Duemila che può essere considerata l’età dell’oro della globalizzazione e dell’apertura del commercio mondiale.
Il calo del numero di accordi commerciali non ha però solo ragioni “politiche”. Per gran parte degli anni Novanta il grado di apertura delle economie mondiali è cresciuto, ma dalla metà dello scorso decennio il processo ha decelerato. Se negli ultimi anni il rallentamento riflette anche un crescente peso di posizioni scettiche sulle politiche di integrazione internazionale nell’opinione pubblica dei paesi più sviluppati, il fenomeno va considerato in una certa misura anche fisiologico: l’apertura commerciale di alcune economie, prima fra tutte la Cina, ha rappresentato un evento irripetibile, che negli anni scorsi ha imposto al processo di globalizzazione un’accelerazione forte ma temporanea. «Una spiegazione del calo – spiega Andrea Dur, docente di relazioni internazionali e tra i fondatori di «Desta» – è dovuta anche al fatto che ormai molti Paesi hanno sviluppato numerosi accordi tra di loro. Prendiamo il caso dell’Europa che ne ha con la maggior parte dei suoi partner commerciali, ecslusi alcuni casi difficili come USa, Cina e Australia». Dur sottolinea anche un’alta ragione: «La liberalizzazione del commercio all’interno del Wto è andata molto avanti, se oggi un accordo commerciale vuole avere un impatto deve essere ambizioso e non fermarsi solo alle tariffe ma toccare punti sensibili come standard sul cibo, investimenti, servizi, cooperazione regolatoria, concorrenza, ecc. Tutti settori questi molto delicati su cui è difficile negoziare a livello internazionale».
Dal 23 marzo 2018 sono in vigore i (temuti) dazi su acciaio e alluminio voluti dal presidente USA, ma per adesso la UE risulta esentata insieme ad altri alleati tra cui Australia, Corea del Sud, Argentina e Brasile. Continuano invece a rimanere alzate le barriere doganali per la Cina, contro la quale sono pronti a scattare dazi su nuove categorie di prodotti per un valore complessivo di circa 60 miliardi di dollari all’anno. A questi dazi si accompagneranno alcune restrizioni sugli investimenti cinesi in aziende di tecnologia americane.
In questo ping pong che pare non tenga conto del Wto (l’organizzazione mondiale del commercio), sono stati imposti dazi per 128 prodotti statunitensi per far fronte alle tariffe applicate dall’amministrazione Trump, ovvero il 10% e il 25 % sulle importazioni di alluminio e di acciaio.
L’ostilità di Trump si è estesa a quel complesso di accordi multilaterali e istituzioni, come il GATT-WTO, che hanno reso possibile la crescita di mercati aperti e interdipendenti fin dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’Europa si è mossa di conseguenza, creando una propria unione politica ed economica e costruendo un insieme di relazioni multilaterali, a partire proprio da quelle basate sul commercio. Infatti i leader europei hanno ora necessità di ripensare la relazione con gli Stati Uniti in tutti gli ambiti, incluse le politiche commerciali.
In meno di un mese dal suo insediamento Donald Trump ha ritirato unilateralmente l’adesione degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership (TPP), un accordo lungamente negoziato dall’amministrazione Obama con undici paesi dell’area del Pacifico per definire regole commerciali comuni in un’area a crescente influenza cinese – escludendo appunto la Cina. Similmente, l’accordo in corso di negoziazione tra Unione Europea e Stati Uniti, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), è stato di fatto congelato senza interlocuzione con l’Europa.
Tuttavia la produzione di beni e servizi è oggi già di fatto transnazionale, cioè lo stesso prodotto viene esportato e importato più volte prima di arrivare al consumatore finale. Soprattutto in paesi economicamente sviluppati come Stati Uniti ed Europa, le imprese sono tanto dipendenti dall’import quanto dall’export. Una politica di dazi generalizzata o la cancellazione di standard comuni già esistenti paralizzerebbe le imprese, soprattutto quelle di piccola o media dimensione.
In ogni caso, il passo indietro degli Stati Uniti renderà necessario per l’Europa cementare il suo ruolo di player commerciale internazionale. Il primo passaggio importante sarà l’approvazione da parte dei parlamenti nazionali europei del CETA, l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada. Il CETA è un esempio di come l’Europa può proiettare nel mondo il proprio modello di economia sociale e aperta.
La seconda necessità sarà rafforzare le relazioni con i paesi dell’area del Pacifico, ovvero l’ASEAN e la Cina. I paesi ASEAN rappresentano collettivamente il terzo partner commerciale dell’Europa, dopo Stati Uniti e Giappone. Già dal 2009 l’Europa ha lanciato negoziati commerciali bilaterali con i principali paesi della regione, due dei quali (Singapore e Vietnam) sono ormai in corso di finalizzazione. Una conclusione positiva di queste trattative potrebbe aprire la porta ad un accordo complessivo tra l’Unione Europea e l’intero blocco ASEAN.
Per garantire maggiore protezione ai cittadini europei, non servono atti di forza come la chiusura generalizzata delle frontiere. Serve invece un nuovo approccio alla politica commerciale europea che preveda all’interno degli accordi multilaterali misure di compensazione e riconversione per i lavoratori in settori non più competitivi, e standard comuni di protezione sia ambientale che dei lavoratori e dei consumatori.
Jeffrey Sachs, esperto mondiale di sviluppo sostenibile, economista alla Columbia University di New York, senior advisor alle Nazioni Unite, editorialista per il New York Times, in lizza per guidare la Banca mondiale, ha presentato il suo ultimo libro, “America 2030. Sviluppo, sostenibilità e la nuova economia dopo Trump”, pubblicato dalla LUISS University Press, e di cui il confindustriale Sole 24 Ore ha pubblicato un’anticipazione.
Cosa pensa un esperto come Sachs del Presidente Trump? Sicuramente osteggia le sue politiche. Eppure, a leggere il suo ultimo libro “America 2030”, si capisce che lo stesso Sachs condivide molte delle preoccupazioni trumpiane per gli effetti (negativi) del commercio internazionale sulla società americana. “La vittoria elettorale di Trump – scrive Sachs – è dovuta in parte all’aver intercettato i sentimenti anti-commercio, soprattutto nella Rust Belt del Midwest americano”. Sentimenti che l’economista della Columbia non si sente di condannare in toto, poiché né il Congresso guidato dai repubblicani né i leader del Partito democratico (Bill Clinton e Barack Obama) hanno fatto granché per garantire che i benefici degli scambi commerciali siano condivisi all’interno degli Stati Uniti. La politica americana tende a non compensare i perdenti, ma prova piuttosto a ignorarli”. Insomma, sui “forgotten men” americani, l’economista papale condivide la diagnosi trumpiana. È dalla prognosi dell’attuale Presidente che Sachs prende le distanze, dicendosi contrario alla politica dei dazi sulle importazioni.
Il 2017 è stato un anno molto positivo per quanto riguarda l’export e si è concluso nel migliore dei modi: nei primi nove mesi del 2017 si sono raggiunti i 331 miliardi e nel 2020 ci si aspetta di toccare i 490 miliardi. Non sarà una passeggiata arrivarci, ma sostanzialmente l’incremento sarà più alto dove oggi è più bassa la quota del nostro export.Nel Paesi target, individuati da SACE, società che sostiene le imprese italiane nel loro processo di crescita e internazionalizzazione e che le guida nella scelta dei mercati e nella gestione dei rischi connessi all’operatività, si stanno verificando delle trasformazioni significative, dettate soprattutto nei mercati emergenti da cambiamenti nei comportamenti d’acquisto (impatto sui beni di consumo) e da cambiamenti industriali che privilegiano l’innovazione tecnologica alla mera capacità produttiva (impatto sui beni di investimento).
Ora tocca al 2018 che per fare una scelta più sicura e conservativa, bisogna affidarsi alla Germania, Francia e Stati Uniti. Non sono da escludere Spagna, Polonia e Repubblica Ceca, le quali hanno visto un incremento importante sia nel 2016, sia nei primi nove mesi del 2017.
Uscendo dalla “comfort zone”, troviamo l’enorme mercato della Cina, Russia ed Emirati Arabi. Per una scommessa rischiosa invece, gli esportatori potrebbero puntare su Indonesia, Messico e Ghana.
Non sono da escludere anche altri Paesi definiti poi di “belle speranze” come l’India, il Sudafrica, il Qatar e il Perù. Inoltre, il tandem governo-Ice, in attesa delle elezioni e del cambio di esecutivo, ha programmato missioni in piazze come Brasile, Giappone, Marocco, Tunisia e Kenya. Nel complesso, l’azione promozionale pubblica conterà nel triennio 2018-2020 su 230 milioni del Piano straordinario made in Italy inseriti nell’ultima manovra. Le iniziative guarderanno ai mercati in base ad analisi precise.
Per quanto riguardano i beni tecnologici, l’Italia è ben posizionata e in questo campo si consolida l’incremento di mercati vicini a noi, come Germania e Polonia e continua lo sviluppo delle nuove piattaforme produttive da intercettare come Indonesia, Vietnam e Cina.
Per chi produce beni di investimento e beni strumentali, i mercati più di frontiera sono una grande opportunità, mentre per i beni di consumo esistono quote alte nei presidi tradizionali, ma ancora basse nel Paesi più dinamici, a grande potenziale demografico e sempre più propensi all’e-commerce (Cina, Indonesia, Vietnam, Filippine, Malesia, Messico).
SCS Venturini offre servizi di spedizione import/export da e per tutto il mondo.
In particolar modo: Cina e Far East (Korea, Giappone, Taiwan); Indonesia; India; Brasile; Medio Oriente; Nord e Sud America; Eupora.
L’introduzione da parte degli USA di misure di protezione commerciale e le possibili ritorsioni avrebbero gravi ripercussioni sull’attività produttiva mondiale. Quali sono i possibili effetti sulle imprese italiane del ritorno ad una politica protezionistica? Numerosi sono gli approfondimenti condotti in questi mesi. Nel Documento di Economia e Finanza si sottolinea come uno shock protezionistico per i dazi USA e la possibilità che tali misure possano inasprirsi ed estendersi a più Paesi, innescando forme di ritorsione, comporterebbero un impatto macroeconomico per l’Italia, con una perdita di PIL, rispetto allo scenario di base, dello 0,3% nel 2018 e dello 0,7% nel 2019.
L’attività produttiva mondiale risentirebbe fortemente dell’introduzione di misure di protezione commerciale (e delle possibili ritorsioni). La stessa situazione di incertezza prodotta da dichiarazioni e annunci che prefigurano involuzioni protezionistiche influisce negativamente sui piani di investimento delle imprese attive sui mercati internazionali.
Lo ha sottolineato il Governatore della Banca d’Italia nella proprie Considerazioni finali rimarcando come vi contribuisce il confronto tra chi preferirebbe un sistema di scambi basato su accordi bilaterali e chi sottolinea l’importanza di preservare le regole globali sul commercio, che hanno sostenuto l’integrazione e lo sviluppo economico degli ultimi decenni.
La Commissione UE ha proposto due emendamenti al regolamento sui pagamenti transfrontalieri (CE 924/2009) per unificare i costi dei trasferimenti in denaro da e verso i paesi dell’Unione Europea anche al di fuori dell’Eurozona. La proposta riguarda sia le commissioni applicate ai bonifici transfrontalieri in euro quando sono effettuati da o verso questi paesi, sia la trasparenza sui costi di conversione di valuta quando la valuta originaria e la valuta del beneficiario sono diverse. Quali sono i vantaggi per consumatori e imprese?
La Commissione UE ha proposto alcune modifiche al regolamento CE 924/2009 sui pagamenti transfrontalieri con le quali si equiparano in punto costi e commissioni tutti i bonifici in euro effettuati da e verso i Paesi dell’Unione Europea, compresi quelli al di fuori dell’area Euro.
La proposta presentata il 28 marzo 2018 prevede inoltre l’obbligo di informativa ex ante in relazione ai cambi applicati per le transazioni in valuta diversa da euro.
L’attuazione delle misure previste permetterà ai consumatori e a tutte le imprese, in particolare le PMI, di cogliere i vantaggi di un mercato unico anche quando effettuano pagamenti, inviano denaro o prelevano contante all’estero e al di fuori dell’area dell’euro.